venerdì 13 giugno 2014

Uscire dall'Euro Si Può

Uno dei pregiudizi più ostici quando si dibatte di Euro verte sull'asserita impossibilità di uscita dalla moneta unica in quanto non prevista dal Trattato di Maastricht.

Questa lacuna, già di per sè, dovrebbe far seriamente riflettere sull'antidemocraticità dell' Eurozona, denunciata da Feldstein nell'indifferenza dei più, e candidamente riconosciuta da Jacques Attalì, cofondatore di questa Unione Europea, il quale - per sua stessa ammissione - ne riconosce la recedibilità, sia pure in modi complicati.

La "pietra angolare" su cui ruota l'opportunità di recesso (vedremo poi con quali modalità se meglio concordata o unilaterale) insiste sulla Convenzione di Vienna del 1969 che, nell'ambito del diritto internazionale, rappresenta la fonte di diritto generale e sancisce la prevalenza dei trattati sulle norme di diritto interne da parte degli Stati che ne hanno firmato il predetto riconoscimento.

L'art. 56 prevede la possibilità di recesso dai trattati che nulla dicano in merito a tale facoltà. Si tratta, giuridicamente, di una norma suppletiva (che trova cioè applicazione in via residuale, laddove non sia stata prevista  un'esplicita volontà) che codifica quel principio generale di diritto, che va sotto il nome autonomia contrattuale, valevole per le parti di un accordo negoziale di potere liberamente costituire, regolare ed estinguere rapporti giuridicamente rilevanti.

D'altro canto, l'impossibilità d'uscita dall' "esclusivo club dell'Eurozona" cozza irrimediabilmente contro il dettato costituzionale: se ci fosse ancora qualcuno che azzardasse simili interpretazioni, è bene ricordargli che l'art. 11 della Costituzione  prevede limitazioni di sovranità, intese come compressioni e non cessioni, nè rinunzie di sovranità; limitazioni di sovranità peraltro subordinate

  1. a condizioni di parità fra Stati (e qui sarebbe d'aprire un altro capitolo per esaminare lo status di subordinazione in cui versa la Repubblica Italiana al cospetto degli altri partner europei, che dettano le "regole del gioco"),
  2. ad ordinamenti capaci di assicurare pace e giustizia fra le Nazioni (e qui calo un veloso pietoso).
L'insopprimibile libertà ed autonomia negoziale di uno Stato è agevolmente deducibile anche dall'art. 50 del Trattato di Lisbona che rafforza, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la natura pattizia e revocabile del trattato UE, disciplinando le modalità formali del recesso.

Con riferimento all'art. 50 TFUE mi preme tuttavia chiarire che l'iter riguarda la procedura d'uscita dall'UE e quindi risulta di difficile applicazione al diverso caso di uscita dal vincolo pattizio dell'€uro.

Secondariamente l'iter in esame risulterebbe essere particolarmente complesso ed oneroso: il paese membro deve infatti notificare l'intenzione di recedere al Consiglio europeo che formulerà i suoi orientamenti per la formalizzazione di un accordo finalizzato a definire le modalità di recesso.

La distillazione dei tempi e le formalità di adempimento, suggellato dai due anni dalla notifica del recesso, risultano essere sconsigliabili ed anzi incompatibili con le modalità di un'uscita che non abbia serie ripercussioni negative a livello economico.

Acclarata dunque la possibilità di recesso, ossia di svincolo da un rapporto negoziale, è bene ricordare per i non addetti ai lavori, il diritto di liberarsi da un trattato non solo in caso di inadempimento di una delle parti (la mancata cooperazione economica sancita come principio cardine dei Trattati europei sancito dall'art. 5 TFUE) di cui all' art. 60 della Convenzione di Vienna, ma anche del sopravvenuto mutamento delle originarie condizioni in cui era avvenuta la stipulazione del Trattato (art. 61 per il mutamento della clausola "rebus sic stantibus").

Ma non basta: un'ulteriore possibilità di recesso dall'area monetaria viene argomentata da alcuni autori anche dalla condotta ultra vires delle istituzioni, che hanno esorbitato dalle proprie competenze.

Sotto questo profilo, si osserva che l'adozione di strumenti come il Fiscal Comact, che di fatto impediscono l'applicazione di misure atte a favorire lo sviluppo economico di regioni colpite da gravi forme di disoccupazione, autorizzerebbero la misura del recesso.

Ancora la sovranità, quale potere supremo di uno Stato che si estrinseca nella Costituzione, si autolegittima nel momento organizzativo attraverso quel Potere costituente che dà vita alla Carta fondamentale che si decide di adottare nel "consorzio sociale". E' dunque una sovranità (sociale) che non è derivata come accade per l'Unione europea, la quale - invece - trova la sua ragion d'essere nella volontà degli Stati firmatari e dunque nella natura pattizia, insita nei Trattati, che come tali sono suscettibili di revoca.

Insomma, mi pare che di materiale didattico ce ne sia abbastanza per mettere fine anche a questa assurdità, una delle tante farneticazioni che circolano sul tema. 



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