venerdì 26 giugno 2015

I 5 dell'Apocalisse

"Con la politica monetaria impostata uniformemente su tutta l'eurozona, le politiche fiscali di bilancio diventano vitali per stabilizzare l'economia ogni volta che si verifica uno shock locale. 

E con tutti i paesi che condividono lo stesso regime di cambio, hanno bisogno di economie flessibili per reagire rapidamente alle crisi. In caso contrario, rischiano che le recessioni lascino cicatrici profonde e permanenti.

Gli aggiustamenti di prezzo relativo non potranno mai verificarsi rapidamente quanto l'aggiustamento del tasso di cambio".

E' un estratto di pag. 4 del Rapporto sul completamento dell'UEM a firma Junker, in cooperazione con Tusk (attuale Presidente del Consiglio Europeo)  Dijsselbloem (presidente dell'Eurogruppo), Draghi (basta la parola) e Martin Schulz (Presidente del Parlamento).

I 5 dell'apocalisse, cooptati da un sistema finanziario autoreferente, confessano apertamente ed impudentemente che le politiche fiscali sono lo strumento per ristabilire l'equilibrio a shock esterni.

D'altro canto ve lo ricordate Monti alla CNN "we are actually destroying domestic demand through fiscal consolidation": Stiamo distruggendo la domanda interna attraverso un aumento fiscale".

E' il fallimento dell'€uro, assurto a metodo di governo per operare quegli aggiustamenti economici che la flessibilità del cambio garantiva come meccanismo di riequilibrio a scompensi di natura estera.

Sarà sempre troppo tardi quando capiremo TUTTI che siamo in mano ad un manipolo di criminali psicopatici.

Non c'è da aggiungere altro, ma solo ringraziare Vladimiro Giacchè per il contributo segnalato via Twitter.


mercoledì 24 giugno 2015

Il Pareggio di Bilancio è la Carneficina dei diritti

La sentenza della Corte Costituzionale sul blocco degli stipendi della PA è un punto di non ritorno per i sindacati è una vittoria di Pirro.

Il blocco coattivo dell'innalzamento degli stipendi del pubblico impiego, stabilito nel 2010 dal governo Berlusconi per oltre 3 milioni di impiegati pubblici, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, ma superiori esigenze di equilibrio finanziario (l'art. 81 della Costituzione) ne ha paralizzato gli effetti: la sentenza della Corte sarà, infatti, efficace solo con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza.

Ne consegue che i 35 miliardi di euro stimati dall'Avvocatura dello Stato come diritti economici maturati in questi anni dai pubblici impiegati sono carta straccia, diritti che - in nome dell'equilibrio finanziario - sono stati cancellati: è la negazione di uno Stato di diritto.

La sentenza, oltre a costituire un palese dietrofront rispetto al recente pronunciamento che aveva spazzato via lo stop all'indicizzazione delle pensioni (della riforma Fornero), contiene in sè una insidiosa tecnica legislativa: d'ora in avanti il legislatore, in nome dell' equilibrio finanziariosarà legittimato a fare terra bruciata dei diritti costituzionalmente garantiti che saranno solo poi, eventualmente, ripristinati con effetti che si produrranno per l'avvenire.

I rappresentanti sindacali hanno ben poco di che rallegrarsi: l'ingiustizia nei confronti dei dipendenti pubblici è stata di fatto consumata per il passato e per l'avvenire ... si vedrà.

Dico e lo sottolineo perchè  l'incostituzionalità è stata dichiarata dalla Corte "sopravvenuta", rispetto alle (mutate ?) esigenze di cassa del Governo in un dato momento storico, dal quale - per l'appunto - la Corte ha fatto decorrere gli effetti (sacrificando così i diritti per il passato in nome del pareggio di bilancio).

Ne consegue che il riconoscimento dei diritti economici spettanti ai pubblici impiegati deve coniugarsi con le esigenze di conti dello Stato, con quel sacro dogma europeo di equilibrio finanziario che ne stabilisce la compatibilità economica e dunque la loro "liquidazione" o sacrificio, come nel caso de quo.

Recependo così le "avvertenze" formulate dal ministro dell'Economia sull'indicizzazione delle pensioni (riforma Fornero), la Corte si è resa garante dei diritti in chiave meramente contabile.

Le esigenze di cassa hanno il sopravvento sui diritti.

E' un principio pericolosissimo perchè, senza distinzioni di sorta, legittima una carnecifina di diritti: debiti della P.A, stipendi e pensioni saranno subordinati all'analisi finanziaria che, per banali esigenze ragioneristiche, si traducono in quel saldo finanziario uguale a zero.

E' evidente che se lo Stato può spendere in funzione delle sue entrate, giocoforza impoverisce e distrugge il sistema economico; ma non basta: d'ora in avanti il legislatore sarà autorizzato ad operare anche in palese violazione dei diritti, in attesa di una sentenza che farà sì giustizia, ma che sconterà - poi - il sacro dogma del pareggio di bilancio, facendo salvi - in ogni caso - gli effetti del "furto" perpetrato.

Si salvi chi può: è l'inizio della fine.

sabato 13 giugno 2015

Il Reddito Minimo non ce lo chiede la Costituzione

Mi sono imbattuto nella lettura di questo articolo pubblicato su MicroMega, in cui l'autore, Giovanni Perazzoli, s'avventura in una spericolata operazione interpretativa : rinvenire il fondamento costituzionale del reddito minimo nell'art. 38, comma 2, della Costituzione.

L'operazione si basa sul richiamo della norma, che testualmente recita:

"I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria" (il grassetto che enfatizza il riferimento al reddito minimo garantito è mio).

Dunque, a parere dell'autore, "La garanzia di un reddito minimo nel caso di disoccupazione involontaria non è incostituzionale", ma - semmai - lo sarebbe ".. la sua assenza: che non ci sia un reddito minimo è incostituzionale".

Ma è proprio così ? Naturalmente no.

Semmai è vero il contrario: l'introduzione del sussidio slegato a qualsiasi forma di attività collide con la Costituzione, che qualifica il lavoro come principio fondante della Repubblica (art. 1) e lo struttura come dovere al concorso del progresso dell società (art. 4 comma 2), oltre che come mezzo per la realizzazione dell'individuo e delle sue aspirazioni.

La concessione del sussidio monetario, che come spiegherò in seguito, avulsa da condizioni di disoccupazione involontaria è costituzionalmente illegittima ed è una forzatura logica ipotizzare un fondamento logico-costituzionale.

Ma procediamo con ordine.

Il secondo comma dell'art. 38 della Costituzione  parla di misure adeguate da erogare alle persone colpite da disoccupazione involontaria. Ciò significa che l'adeguatezza dei mezzi di sussistenza, erogabili alle persone colpite da disoccupazione involontaria, va commisurata alle esigenze professionali che di volta in volta si profileranno. Va da sè, a titolo puramente esemplificativo, che il sostegno economico riconoscibile a favore di un medico, involontariamente disoccupato, non potrà essere uguale a quello di un operaio.

Il reddito minimo garantito, livellando l'erogazione monetaria verso il basso e rapportandola unicamente al percettore e ad eventuali componenti familiari a suo carico, cancella inevitabilmente le diversità qualitative, aprendo la breccia a gravi ed ingiustificate disparità di trattamento incompatibili col precetto costituzionale in esame e tali da non potersi coordinare e dirimere neppure col principio di uguaglianza, ex art. 2 (casi uguali vanno trattati in modo uguale, ma casi diversi andranno regolati in modo diverso).

Ma non basta: la disoccupazione involontaria, di cui fa parola l'art. 38 comma 2 della Cost., ricomprende anche il (legittimo) rifiuto di offerte lavorative la cui retribuzione non sia proporzionata alla qualificazione professionale maturata dall' incolpevole disoccupato che resta legittimamente disoccupato involontario e, dunque, beneficiario - si osservi - di quei mezzi adeguati (come recita la Costituzione) rapportabili al suo status professionale e non già della mera riscossione di un reddito minimo, per definizione idoneo solo alla copertura di meri bisogni vitali.

In secondo luogo: siamo veramente privi di un reddito minimo ?

La Convenzione Oil (n. 26 del 1928) contiene riferimenti al salario minimo stabilendo che "l'equo salario minimo è quello stabilito dagli accordi collettivi". Si tratta di una norma che dunque riconosce alla contrattazione collettiva il ruolo fondamentale nella determinazione negoziale dei livelli retributivi rimessi ai rapporti di forza delle parti (sindacati/datori di lavoro).

Che la contrattazione collettiva sia lo strumento fondamentale attraverso il quale si addiviene alla determinazione di un reddito minimo, equo si deduce anche da altre norme rappresentate dall'
  • art. 10 della Convenzione Oil  n. 117/62
  • nella successiva Convenzione n. 95 del 1970
  • art. 4 della Carta sociale europea del 1989 che individua nelle convenzioni collettive liberamente concluse, lo strumento di garanzia delle retribuzioni sufficienti.
Le retribuzioni minime, frutto di contrattazione collettiva, non sono poi neppure suscettibili di trattamenti peggiorativi (chi ha la pazienza di vedersi l'art. 3 della Convenzione Oil n. 26/1928 troverà il riscontro). Quelle sono e tali devono rimanere, lasciando alla negoziazione collettiva il compito di liberamente determinare il quantum retributivo, ma solo in melius.

La precisazione potrà sembrare superflua, ma mi sembra opportuna anche per ricordare la bocciatura dell'emendamento costituzionale dell'On.Colitto che, in sede costituente, propose l'introduzione di un livello retributivo adeguato alle "possibilità dell'economia nazionale" così da scongiurare una economia ab initio tarata, a scapito degli interessi dei lavoratori.

E' quindi di tutta evidenza che in questo quadro normativo il reddito minimo sia fissato dalla contrattazione collettiva; vieppiù, il tentativo di ricavare il fondamento costituzionale del reddito minimo nell'art. 38 comma 2 della Costituzione, accanto alle ragioni sopra esposte, è errato e fuorviante.

Perchè ?

Ma perchè l'articolo della Costituzione, sopra richiamato, fa riferimento alla tutela previdenziale, che viene accordata a tutti i lavoratori in funzione di un sistema assicurativo sociale che garantisce la corresponsione delle prestazioni a seguito degli accantonamenti di quote di salario o comunque di reddito.

La vecchia indennità di disoccupazione, ora sostituita dall'ASPI, unitamente alla Cassa Integrazione, nelle sue variegate articolazioni, oltre ad avere già una elevata incidenza nel computo complessivo della spesa pubblica e a rappresentare misure di welfare complessivamente esaurienti e comunque in linea per volume alle medie UE (ancorchè non tassative), devono rappresentare una finestra temporale circoscritta, legata all'eccezionalità dello stato disoccupazionale nel contesto di una Repubblica che è attrezzata di tutti quegli strumenti di politica economica, fiscale ed industriale atti al raggiungimento di pieno impiego ed il cui compito è rimuovere gli ostacoli economico-sociali che si frappongono alla piena realizzazione dei diritti (v. art. 4 Costituzione).

Il modello economico, recepito dalla Costituzione, è configurato in modo da garantire il più rapido riassorbimento del lavoratore disoccupato nel normale processo lavorativo nell'ottica di quell'art. 1 della Costituzione, che qualifica il lavoro quale valore fondamentale e fondante della Repubblica.

Che il lavoro oggi non ci sia, non significa che sia giusto, nè che questo dato debba diventare ineluttabile, facendo abdicare lo Stato alle sue prerogative sovrane, surrogando il lavoro con un diritto al reddito che, si badi, diventerà la soglia massima retributiva oltre la quale i datori di lavoro non si schioderanno, potendo, infatti, disporre di un esercito di "riserva" dal quale attingere un'ampia forza-lavoro intercambiabile.

Il tema, dunque, richiede un'attenta riflessione e soprattutto un rovesciamento dell'attuale paradigma economico ove il reddito minimo diventa un espediente, un "respiratore artificiale", quel tampone utile a "sedare" i diritti e ripristinare, con la massima urgenza, quel modello economico keynesiano voluto dai nostri costituenti, che da troppi anni è stato tradito dalle classi politiche in nome di un vincolo esterno ossessionato dal sacro dogma della stabilità dei prezzi funzionale alla creazione di ampie masse di disoccupati.

Diventa quindi preoccupante il risultato emerso dal sondaggio di Scenari Economici, ove emerge

  • un significativo 67% favorevole all'erogazione del sussidio, in luogo del diritto al lavoro, accettando così supinamento l'ineluttabilità della disoccupazione;
  • la richiesta del 61% dei partecipanti che il reddito di cittadinanza (leggasi reddito minimo) sia erogato "Sempre, indipendentemente dall'andamento dell'economia".

Emerge, pertanto, quella pericolosa tendenza al free-riding (leggasi pigrizia declinante nel più becero fancazzismo), tale per cui l'erogazione di un reddito è preferita al lavoro, attraverso una classe politica prona all'€uropa, disposta ad elargire una soluzione sussidiata, populista, che tradisce il più elementare valore costituzionale (il lavoro) e che mette d'accordo padroni e schiavi cui viene erogata la provvidenza de quo.

Il reddito minimo in Costituzione non esiste per la semplice ed ovvia ragione che non ce ne è bisogno: il lavoro è IL DIRITTO della Costituzione che, attraverso quella retribuzione dignitosa (art. 36), consente l'elevazione sociale ed economica degli individui sancita nell' art. 46 della Costituzione, ma che sarà irrimediabilmente menomata dall' introduzione del reddito minimo.

Naturalmente sulle ridicole coperture finanziarie non mi soffermo: il conto lo pagheranno i soliti noti.