sabato 13 giugno 2015

Il Reddito Minimo non ce lo chiede la Costituzione

Mi sono imbattuto nella lettura di questo articolo pubblicato su MicroMega, in cui l'autore, Giovanni Perazzoli, s'avventura in una spericolata operazione interpretativa : rinvenire il fondamento costituzionale del reddito minimo nell'art. 38, comma 2, della Costituzione.

L'operazione si basa sul richiamo della norma, che testualmente recita:

"I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria" (il grassetto che enfatizza il riferimento al reddito minimo garantito è mio).

Dunque, a parere dell'autore, "La garanzia di un reddito minimo nel caso di disoccupazione involontaria non è incostituzionale", ma - semmai - lo sarebbe ".. la sua assenza: che non ci sia un reddito minimo è incostituzionale".

Ma è proprio così ? Naturalmente no.

Semmai è vero il contrario: l'introduzione del sussidio slegato a qualsiasi forma di attività collide con la Costituzione, che qualifica il lavoro come principio fondante della Repubblica (art. 1) e lo struttura come dovere al concorso del progresso dell società (art. 4 comma 2), oltre che come mezzo per la realizzazione dell'individuo e delle sue aspirazioni.

La concessione del sussidio monetario, che come spiegherò in seguito, avulsa da condizioni di disoccupazione involontaria è costituzionalmente illegittima ed è una forzatura logica ipotizzare un fondamento logico-costituzionale.

Ma procediamo con ordine.

Il secondo comma dell'art. 38 della Costituzione  parla di misure adeguate da erogare alle persone colpite da disoccupazione involontaria. Ciò significa che l'adeguatezza dei mezzi di sussistenza, erogabili alle persone colpite da disoccupazione involontaria, va commisurata alle esigenze professionali che di volta in volta si profileranno. Va da sè, a titolo puramente esemplificativo, che il sostegno economico riconoscibile a favore di un medico, involontariamente disoccupato, non potrà essere uguale a quello di un operaio.

Il reddito minimo garantito, livellando l'erogazione monetaria verso il basso e rapportandola unicamente al percettore e ad eventuali componenti familiari a suo carico, cancella inevitabilmente le diversità qualitative, aprendo la breccia a gravi ed ingiustificate disparità di trattamento incompatibili col precetto costituzionale in esame e tali da non potersi coordinare e dirimere neppure col principio di uguaglianza, ex art. 2 (casi uguali vanno trattati in modo uguale, ma casi diversi andranno regolati in modo diverso).

Ma non basta: la disoccupazione involontaria, di cui fa parola l'art. 38 comma 2 della Cost., ricomprende anche il (legittimo) rifiuto di offerte lavorative la cui retribuzione non sia proporzionata alla qualificazione professionale maturata dall' incolpevole disoccupato che resta legittimamente disoccupato involontario e, dunque, beneficiario - si osservi - di quei mezzi adeguati (come recita la Costituzione) rapportabili al suo status professionale e non già della mera riscossione di un reddito minimo, per definizione idoneo solo alla copertura di meri bisogni vitali.

In secondo luogo: siamo veramente privi di un reddito minimo ?

La Convenzione Oil (n. 26 del 1928) contiene riferimenti al salario minimo stabilendo che "l'equo salario minimo è quello stabilito dagli accordi collettivi". Si tratta di una norma che dunque riconosce alla contrattazione collettiva il ruolo fondamentale nella determinazione negoziale dei livelli retributivi rimessi ai rapporti di forza delle parti (sindacati/datori di lavoro).

Che la contrattazione collettiva sia lo strumento fondamentale attraverso il quale si addiviene alla determinazione di un reddito minimo, equo si deduce anche da altre norme rappresentate dall'
  • art. 10 della Convenzione Oil  n. 117/62
  • nella successiva Convenzione n. 95 del 1970
  • art. 4 della Carta sociale europea del 1989 che individua nelle convenzioni collettive liberamente concluse, lo strumento di garanzia delle retribuzioni sufficienti.
Le retribuzioni minime, frutto di contrattazione collettiva, non sono poi neppure suscettibili di trattamenti peggiorativi (chi ha la pazienza di vedersi l'art. 3 della Convenzione Oil n. 26/1928 troverà il riscontro). Quelle sono e tali devono rimanere, lasciando alla negoziazione collettiva il compito di liberamente determinare il quantum retributivo, ma solo in melius.

La precisazione potrà sembrare superflua, ma mi sembra opportuna anche per ricordare la bocciatura dell'emendamento costituzionale dell'On.Colitto che, in sede costituente, propose l'introduzione di un livello retributivo adeguato alle "possibilità dell'economia nazionale" così da scongiurare una economia ab initio tarata, a scapito degli interessi dei lavoratori.

E' quindi di tutta evidenza che in questo quadro normativo il reddito minimo sia fissato dalla contrattazione collettiva; vieppiù, il tentativo di ricavare il fondamento costituzionale del reddito minimo nell'art. 38 comma 2 della Costituzione, accanto alle ragioni sopra esposte, è errato e fuorviante.

Perchè ?

Ma perchè l'articolo della Costituzione, sopra richiamato, fa riferimento alla tutela previdenziale, che viene accordata a tutti i lavoratori in funzione di un sistema assicurativo sociale che garantisce la corresponsione delle prestazioni a seguito degli accantonamenti di quote di salario o comunque di reddito.

La vecchia indennità di disoccupazione, ora sostituita dall'ASPI, unitamente alla Cassa Integrazione, nelle sue variegate articolazioni, oltre ad avere già una elevata incidenza nel computo complessivo della spesa pubblica e a rappresentare misure di welfare complessivamente esaurienti e comunque in linea per volume alle medie UE (ancorchè non tassative), devono rappresentare una finestra temporale circoscritta, legata all'eccezionalità dello stato disoccupazionale nel contesto di una Repubblica che è attrezzata di tutti quegli strumenti di politica economica, fiscale ed industriale atti al raggiungimento di pieno impiego ed il cui compito è rimuovere gli ostacoli economico-sociali che si frappongono alla piena realizzazione dei diritti (v. art. 4 Costituzione).

Il modello economico, recepito dalla Costituzione, è configurato in modo da garantire il più rapido riassorbimento del lavoratore disoccupato nel normale processo lavorativo nell'ottica di quell'art. 1 della Costituzione, che qualifica il lavoro quale valore fondamentale e fondante della Repubblica.

Che il lavoro oggi non ci sia, non significa che sia giusto, nè che questo dato debba diventare ineluttabile, facendo abdicare lo Stato alle sue prerogative sovrane, surrogando il lavoro con un diritto al reddito che, si badi, diventerà la soglia massima retributiva oltre la quale i datori di lavoro non si schioderanno, potendo, infatti, disporre di un esercito di "riserva" dal quale attingere un'ampia forza-lavoro intercambiabile.

Il tema, dunque, richiede un'attenta riflessione e soprattutto un rovesciamento dell'attuale paradigma economico ove il reddito minimo diventa un espediente, un "respiratore artificiale", quel tampone utile a "sedare" i diritti e ripristinare, con la massima urgenza, quel modello economico keynesiano voluto dai nostri costituenti, che da troppi anni è stato tradito dalle classi politiche in nome di un vincolo esterno ossessionato dal sacro dogma della stabilità dei prezzi funzionale alla creazione di ampie masse di disoccupati.

Diventa quindi preoccupante il risultato emerso dal sondaggio di Scenari Economici, ove emerge

  • un significativo 67% favorevole all'erogazione del sussidio, in luogo del diritto al lavoro, accettando così supinamento l'ineluttabilità della disoccupazione;
  • la richiesta del 61% dei partecipanti che il reddito di cittadinanza (leggasi reddito minimo) sia erogato "Sempre, indipendentemente dall'andamento dell'economia".

Emerge, pertanto, quella pericolosa tendenza al free-riding (leggasi pigrizia declinante nel più becero fancazzismo), tale per cui l'erogazione di un reddito è preferita al lavoro, attraverso una classe politica prona all'€uropa, disposta ad elargire una soluzione sussidiata, populista, che tradisce il più elementare valore costituzionale (il lavoro) e che mette d'accordo padroni e schiavi cui viene erogata la provvidenza de quo.

Il reddito minimo in Costituzione non esiste per la semplice ed ovvia ragione che non ce ne è bisogno: il lavoro è IL DIRITTO della Costituzione che, attraverso quella retribuzione dignitosa (art. 36), consente l'elevazione sociale ed economica degli individui sancita nell' art. 46 della Costituzione, ma che sarà irrimediabilmente menomata dall' introduzione del reddito minimo.

Naturalmente sulle ridicole coperture finanziarie non mi soffermo: il conto lo pagheranno i soliti noti.

1 commento:

  1. Egregio professore, sono un docente di ruolo di liceo di 55 anni.
    Le scrivo perché condivido solo una parte del suo ragionamento, è giusto sostenere che ogni cittadino ha il diritto ma ha anche il dovere di contribuire con il proprio lavoro al mantenimento della propria persona e dell'eventuale famiglia.
    In base alle proprie capacità ogni cittadino deve rendere un servizio alla comunità che in cambio dovrebbe garantire un reddito sufficiente per poter permettere al lavoratore di condurre una vita dignitosa e di potersi formare una famiglia.
    Una società complessa come la nostra si regge e si sviluppa grazie al lavoro del singolo cittadino.
    Purtroppo troppo spesso oggi chi perde il lavoro non è in grado di trovarne un' altro, perché come ammette Lei stesso non esiste.
    Ci può essere come dice Lei chi rifiuta un lavoro perché non è adeguato al titolo di studio, di professionalità, sappia però, che solo coloro che non hanno una famiglia da mantenere e vivono in una situazione agiata possono permettersi questo tipo di atteggiamento. Mi risulta che pur di lavorare un cittadino (di mia conoscenza) padre di un bambino essendo disoccupato con l'aiuto della sua famiglia di origine ha sostenuto un corso professionale di circa 3000 euro, per ottenere il titolo di inserviente negli ospedali. Purtroppo le sue aspettative sono rimaste deluse, nonostante abbia anche un diploma di scuola secondaria continua a essere disoccupato e vive con la pensione del proprio padre.
    In sostanza voglio farle capire che oggi chi è disoccupato non l'ho è per scelta (SALVO RARISSIMI CASI) pertanto come recita l'articolo 38, lo Stato deve tutelare non solo le persone inabili ma tutti coloro che sono in stato di necessità e non trovano nessun tipo di occupazione.
    Dovrebbe garantire un minimo di assistenza economica valutando di volta in volta le reali necessità.
    Lei motiva la sua posizione tra l'altro spiegando: “....Va da sè, a titolo puramente esemplificativo, che il sostegno economico riconoscibile a favore di un medico, involontariamente disoccupato, non potrà essere uguale a quello di un operaio.”
    Il suo ragionamento non convince, perché se una persona viene riconosciuta inabile al lavoro con diritto a ricevere (oltre la pensione) l'indennità per l'accompagnatore, mi risulta che quest'ultima non viene calcolata in base al tipo di professione o di titolo di studio della persona inabile. L'indennità consiste in un assegno di circa 500 euro indipendentemente dal titolo di studio e anche dalle possibilità economiche della persona inabile, è questo è sbagliato!
    In base alla mia esperienza personale l'assegno dovrebbe essere dato in base alle condizioni economiche dell'assistito. Per esempio non ha senso dare 500 euro come contributo per l'assistenza a chi riceve pensioni di oltre 10 mila euro di pensione. L'assegno di accompagnatore dovrebbe essere concesso al pari dell'assegno di disoccupazione solo valutando lo stato di necessità e la mancanza di un reddito alternativo, si può essere disoccupati ed essere proprietari di 20 appartamenti di proprietà dati in affitto, in questo caso la persona disoccupata o inabile al lavoro non dovrebbe ricevere nessun sostegno dallo Stato, per mancanza dello stato di bisogno.
    Se la moglie di Renzi rimane disoccupata come insegnante, non si può certo pensare di preoccuparsi di dargli un sostegno economico, non avrebbe senso.
    Ritengo quindi che lo Stato deve aiutare solo chi è in grave difficoltà a provvedere per se e per la propria famiglia all'acquisto di beni di prima necessità.
    Per comprendere la gravità del problema sottovalutato della disoccupazione la invito ha leggere il famoso saggio “La fine del lavoro” scritto dall'economista americano Jeremy Rifkin, le consiglio di collegarsi sui seguenti siti per meglio comprendere il mio punto di vista:
    http://online.scuola.zanichelli.it/centriperiferie/files/2012/08/Zanichelli_Riccardi_Storiografia_Percorso14_5Rifkin.pdf

    https://it.wikipedia.org/wiki/La_fine_del_lavoro

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